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Antonio Alisa - La malaria in Sardegna

Estratto dalla tesi di laurea specialistica in Scienze Storiche, 2013.

La Malaria in Sardegna

1. La Malaria in Sardegna nell’Ottocento

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, in Sardegna, si riscontra una forte e diffusa presenza della Malaria; l’unicità del caso sardo rispetto al resto dell’Italia è attestata dalla gravità della sua situazione, infatti, in Sardegna, la Malaria era presente praticamente su tutto il territorio, mentre nel resto d’Italia la sua presenza era circoscritta ad alcune aree. Lo stesso igienista e malariologo Angelo Celli dichiarava che la situazione della Malaria nell’isola era “unica”, in quanto ne veniva sottolineata la forza invasiva e devastante, in una regione con la più bassa densità demografica (33 ab. per kmq).
La gravità del fenomeno malarico era una novità per l’ambiente sardo, non era un eredità di epoche passate, e a ciò corrispose il periodo della sua maggiore espansione, intorno agli anni 70’ dell’Ottocento, dovuta alla rottura dei vecchi equilibri di carattere sociale ed ambientale; sono gli anni, infatti, della privatizzazione delle terre, della realizzazione delle prime ferrovie e del ripopolamento, effettuato tramite la pratica della Colonizzazione, di aree precedentemente desertiche ed abbandonate. La trasmissione dell’infezione è provocata dalla presenza di un circuito composto principalmente da tre fattori: gli uomini, il Plasmodio ed alcune specie di zanzare del genere “Anopheles” che ne sono portatrici. Nonostante ciò, si percepiva che le condizioni ambientali avevano un ruolo primario nella trasmissione dell’infezione, per questo motivo furono individuati come responsabili del decadimento ambientale il disboscamento incontrollato e il dissodamento di nuove terre.
Sempre intorno al secondo decennio unitario, si assistette in Sardegna ad una deforestazione selvaggia, spinta dalle richieste del mercato e sostenuta dalla politica del governo piemontese, invano contrastata dagli ambienti locali; altri fattori che portarono a questo disboscamento furono l’avvio di imprese minerarie nell’Iglesiente, dove notevoli quantità di legname veniva bruciato per ricavarne carbone, e la costruzione delle strade ferrate, per le quali era necessario un massiccio impiego di legna per le traversine. Tutto questo aveva portato alla distruzione del patrimonio boschivo sardo, gli rimaneva il 12% del territorio boschivo, contro una media del 21% nel resto del Regno.
E’ ben nota l’azione benefica dei boschi per quanto riguarda il regime
idrometereologico, in quanto essi hanno la capacità di influenzare il corso delle nubi, di attenuare la violenza dei venti, di porre un freno allo scorrimento e all’afflusso delle acque ai torrenti, di mantenere l’umidità del suolo. Perciò non c’è da sorprendersi se in seguito al feroce disboscamento cominciarono a manifestarsi innumerevoli effetti negativi per la Sardegna: un aumento delle temperature, frane sempre più frequenti, piene sempre più precipitose con conseguente disordine dei fiumi, l’accentuarsi del carattere torrentizio dei corsi d’acqua, seguiti da periodi di siccità in primavera ed estate; il ritirarsi delle acque portava spesso alla formazione di acquitrini e pozze che tardavano ad asciugarsi, trasformandosi in pericolosi focolai malarici. Ad aumentare il dissesto idrogeologico contribuirono anche le opere realizzate in tutta fretta per lo scolo delle acque, ad esempio nella costruzione della rete ferroviaria.
Il governo piemontese, da parte sua, riteneva sufficiente ripopolare le zone disabitate dell’isola e affidare alla volontà dei nuovi coloni il controllo antimalarico, attraverso una sistemazione volontaria delle proprie terre; nonostante la lotta svolta da questi nuovi arrivati per sconfiggere la natura impervia, i risultati raggiunti non furono quelli sperati; ci si trovava davanti ad un circolo vizioso: l’opera degli uomini non era stata in grado di debellare l’infezione ma allo stesso tempo le terre malsane non potevano essere destinate all’agricoltura se prima non venivano risanate. La colonizzazione non si sarebbe potuta portare avanti se non veniva stilato un Piano organico di attività ed opere da gestire in modo complessivo attuando contemporaneamente una sistemazione idraulica, un risanamento igienico, una sistemazione degli scoli delle acque, una trasformazione agraria e un riassetto totale del territorio (si iniziava ad arrivare alla concezione della “Bonifica Integrale”).
Nei primo anni Ottanta del ‘Ottocento venne creata la “Carta della Malaria dell’Italia”, attraverso la quale venne presentato un disegno di legge che delineava in modo dettagliato la diffusione, la distribuzione e l’intensità della malattia nelle varie regioni, portando alla formulazione di tre ipotetiche categorie di Malaria: Leggera (si tratta di territori in cui si manifestano casi di infezioni deboli, che provoca febbri non gravi ma frequenti, portando ad una scarsa mortalità); Grave (in questi territori si manifestano frequenti casi di febbri miasmatiche portando ad un a maggiore mortalità); Gravissima (si tratta di territori in cui viverci comporta l’esporsi, in modo considerevole, al contagio, qui il tasso di mortalità è il più elevato). In Sardegna la Malaria lieve e grave si trovava lungo la pian alluvionale formata dal Flumendosa, il Campidano centrale e occidentale ed infine i campi del settentrione (specialmente la Nurra); la Malaria gravissima, invece, era presente nelle terre basse e piatte e nelle fasce costiere; comunque la Malaria ricopriva la superficie dell’intera isola.
Nel 1882 venne emanata la Legge Baccarini, la prima in Italia sulla bonifica idraulica, nella quale veniva dichiarata come una priorità la lotta antimalarica, prevedendo un forte contributo statale; con questa legge si classificavano le opere da eseguire in due categorie, ma entrambe riguardavano principalmente il miglioramento agricolo associandolo all’interesse igienico. Le spese per la realizzazione delle opere erano a carico dello Stato, mentre i proprietari terrieri interessati contribuivano versando le plusvalenze decurtate dalle spese di manutenzione. Fra il 1897 e il 1907, vengono emanate in Sardegna delle Leggi Speciali, in seguito alle pressioni di vari enti ed associazioni agrarie, ma soprattutto grazie all’interesse, principalmente questo settore, dell’On. Francesco Cocco Ortu (Ministro dell’Agricoltura nel 1897-98 e nel 1906-09).
La legge prevedeva un intervento bonificatore organico tra montagna e pianura destinato alla sistemazione montana, al rinsaldamento e al rimboschimento, secondo un piano regionale di sistemazione generale delle acque dei bacini idrografici; il Piano prevedeva una spesa di 11.750.000 Lire da ripartire nelle seguenti opere:
Opere di correzione dei corsi d’acqua L. 6.800.000
Bonificazioni L. 3.550.000
Rimboschimenti L. 1.400.000
Le leggi del 1902 e del 1907, gli anni della legislazione antimalarica, prevederanno altri 11.000.000 Lire per le bonifiche delle aree più colpite dalla Malaria: l’agro di Sassari e Porto Torres, Posada, Orosei, e Siniscola, la Valle del Liscia, del Temo e le paludi del Campidano.

2. La lotta alla Malaria nei primi del Novecento

Il divario esistente tra l’Italia centro-settentrionale ed alcune zone del meridione e della Sardegna è dovuto ad una serie di fattori storici, economici, geografici ed ambientali; infatti, mentre nell’Italia del centro-nord, in seguito ad una forte spinta economica e demografica, si procedeva alla creazione di importanti opere di difesa delle acque e di sistemazione idraulica, con conseguente loro risanamento, in Sardegna, invece, l’organizzazione feudale di alcune istituzioni e il suo regime di “Openfield” (i suoi terreni ademprivili), avevano ostacolato le operazioni di risanamento ambientale. Negli anni Trenta dell’Ottocento, il governo piemontese aveva cercato di avviare qualche debole tentativo di bonifica, affidando tali operazioni, in cambio di concessioni di vaste terre acquitrinose e deserte, ad alcune società finanziarie straniere; questa politica si appoggiava sull’iniziativa spontanea dei piccoli e medi proprietari terrieri. Infine lo Stato avrebbe stabilito la concessione di terreni ai Comuni e alle Provincie, a patto che questi provvedessero alle spese per la realizzazione delle opere di miglioramento; purtroppo, nell’isola la situazione finanziaria delle istituzioni non era in grado di sopportare le spese ordinarie, tanto meno si poteva pensare che sopportassero gli oneri così gravosi e insostenibili che queste opere imponevano.
In questa fase della lotta antimalarica si perseguiva una “Bonifica umana”, condotta attraverso l’utilizzo del Chinino e della protezione meccanica, attraverso un miglioramento delle condizioni abitative, del vestiario e dell’alimentazione; attraverso questo sistema si prefiggevano due obiettivi: la cura della malattia e la prevenzione nella diffusione di questa nelle persone sane. In Sardegna la profilassi a base di Chinino fece passare in secondo piano la questione ambientale, la quale si andava aggravando a causa della crescita dell’allevamento ovino e, in conseguenza di ciò, dell’utilizzo delle terre per il loro pascolo; a questo si aggiungevano gli esigui stanziamenti statali, troppo spesso insufficienti per rispondere al problema, le scarsissime finanze dei comuni che quindi non erano in grado di sostenere tali spese, l’arretratezza della struttura sanitaria regionale ed, infine, la mancanza di un organismo creato appositamente per la lotta antimalarica.
La scarsa disponibilità di risorse finanziarie fu uno dei maggiori problemi da risolvere per poter portare avanti la lotta alla Malaria; perciò sin dai primi del Novecento furono emanate leggi su questo tema. La Legge n.505 del 23 Dicembre 1900, soprannominata anche “Legge sul Chinino di Stato”, autorizzava il Ministro delle Finanze a vendere al pubblico l’Idroclorato, il Solforato ed il Bisolforato attraverso i farmacisti, eliminando così gli abusi che nel passato si erano avuti nella vendita di queste sostanze alle popolazioni dei paesi malarici, facendo in modo che il Chinino giungesse anche nei paesi più sperduti e meno collegati. Una seconda Legge, la n.406 del 2 Novembre 1901, intitolata “Disposizioni per diminuire le cose della Malaria”, prevedeva l’avvio di una profilassi di emergenza per quelle categorie di lavoratori più esposti ai rischi di infezioni, i quali lavorano in zone a forte presenza di miasmi malarici; imponeva, inoltre, alle ditte appaltatrici e agli imprenditori di lavoro pubblici di provvedere allo scolo delle acque e di evitare l’apertura di cave di prestito; i lavoratori dovevano essere forniti gratuitamente di Chinino, il cui acquisto era a carico dei datori di lavoro; infine si doveva garantire la messa in sicurezza, attraverso apposite zanzariere, dei vari locali lavorativi e di uso abitativo. Altre Leggi successive si occuparono anche di interventi “preventivi” per una corretta profilassi; si cercava in tal modo di spezzare quel circolo vizioso.
In Sardegna la legislazione antimalarica doveva fare i conti con una realtà molto difficile in cui, la povertà dei Comuni, la forte frammentazione della proprietà fondiaria, le difficoltà nelle comunicazioni e la scarsa presenza di strutture medico-sanitarie impedivano una vera svolta. La presenza di vaste terre incolte ed abbandonate, usate principalmente dai pastori come terre di pascolo, rendeva difficile la compilazione di una “Carta della Malaria” per ciascun Comune (in Provincia di Sassari furono dichiarati malarici ben 58 Comuni dislocati nelle fasce costiere, la Nurra, le pianure interne di Ozieri e di Bonorva). Altro problema riguardava l’impossibilità di raggiungere e distribuire capillarmente il Chinino a tutti coloro che erano infetti, ciò dovuto ad una serie di considerazioni: per l’assenza di case coloniche nei poderi e nelle terre infestate dalla Malaria; per la penosa situazione della viabilità, la mobilità e la precarietà dei braccianti a giornata che non lavoravano mai su un podere fisso; i proprietari molto spesso non si curavano delle regole e non garantivano l’uso del Chinino ai loro braccianti; le amministrazioni non sempre adempivano ai loro compiti prescritti dalle norme ed infine, a tuto ciò, si aggiungeva il fatto di un’assistenza sanitaria debole ed inefficiente al suo scopo (spesso mancava la presenza del medico a causa della mancanza di fondi comunali per poterli retribuire). Ultimo punto, ma non meno importante, riguardava l’aspetto psicologico della gente; infatti alla legislazione antimalarica ed alle cure mediche si opponevano una serie di pregiudizi, basati sull’ignoranza (dovuta alla scarsa scolarizzazione) e sulla povertà della gente; l’accettazione dell’uso del Chinino come prevenzione fu un processo lento e non uniforme, le difficoltà maggiori venivano dall’attuazione della profilassi sui bambini e nella cura preventiva dei soggetti a rischio.
Nonostante tutte queste difficoltà e resistenze, la profilassi a base di Chinino iniziò a dare qualche risultato, anche se non sufficiente a debellare la malaria. Purtroppo all’avvio del Primo Conflitto Mondiale le cose peggiorarono, così dal 1915 ci fu una impennata della mortalità causata dall’aumento delle infezioni, dovute principalmente ad un rallentamento dei controlli sulla distribuzione del farmaco e a causa dell’interruzione di molte opere di bonifica che permisero la creazione e la diffusione di focolai malarici; ultimo elemento dalle deleterie conseguenze fu l’arrivo dell’influenza Spagnola, che contribuì ad abbassare le difese immunitarie e causò numerose vittime, avendo così una forte retrocessione della situazione sanitaria.

3. La Malaria in epoca fascista

La situazione ereditata dal Fascismo fu alquanto grave e necessitava di un rapido cambiamento di linea, attraverso una forte presenza statale; per questa ragione nel 1923 furono varati alcuni provvedimenti per riformare gli ordinamenti sanitari. Alcuni di questi addossavano la spesa per l’acquisto del Chinino, non più ai Comuni ma alle Provincie, eliminando così gli oneri dalle casse comunali. Sempre nello stesso anno fu emanato il “Testo Unico sulle bonifiche dei terreni paludosi”, il quale disponeva l’anticipazione da parte dello Stato delle somme necessarie alle operazioni di risanamento, che sarebbero poi state rimborsate dai proprietari con un aumento del 5%. Nel 1924 furono varate la “Legge Serpieri” e la “Legge del Miliardo” (da spendere in un programma previsto di 10 anni), infine nel 1925 fu istituito il “Provveditorato alle opere pubbliche del Mezzogiorno e delle isole”; fu questa una fase caratterizzata da una notevole legislazione, si voleva dare l’impressione di una discontinuità col passato in cui poco era stato fatto, si avviava però anche una Fascistizzazione della società. L’idea della salute, modello dello spirito liberale precedente, venne sostituita con il concetto “politico” del risanamento fisico e morale del popolo, come presupposto fondamentale per un maggior rendimento ed una maggiore efficienza lavorativa. A livello locale, gli igienisti insistevano sulla necessità del “miglioramento della morfologia della Razza, che tra le popolazioni italiane, quella Sarda tocca le cifre più basse di statura e di peso”.
Per raggiungere i fini proposti con questa legislazione, vennero creati dei Comitati Provinciali per la lotta antimalarica (istituiti attraverso la Legge n.1265 del 27 Luglio 1934, il Testo Unico), che affiancavano comuni e provincie; purtroppo i fondi erano ancora insufficienti per garantire una completa applicazione; a questo si aggiungeva la frammentazione nell’organizzazione e nell’amministrazione sanitaria, oltre all’accavallarsi delle competenze fra vari Enti ed organi; perciò alla fine degli anni Trenta i risultati conseguiti ancora non erano soddisfacenti.
La politica Fascista nella lotta alla Malaria si era concentrata sul concetto di “Bonifica Integrale” elaborato da Serpieri; s’intendeva sconfiggere l’infezione attraverso una serie di opere di risanamento e riassesto del territorio, al quale doveva seguire una sistemazione idraulica dei corsi d’acqua; ma alla fine dei conti, tutto ciò che il Fascismo aveva fatto per debellare la Malaria fu inadeguato e insufficiente, molti scienziati avevano denunciato l’inutilità di alcune opere di bonifica, che non erano state accompagnate da altri interventi; solo là dove alla bonifica idraulica era seguita quella agraria si erano ottenuti risultati significativi. Ci furono comunque dei risultati positivi (ad esempio un forte calo della mortalità per cause malariche), anche se non attribuibili esclusivamente alla politica Fascista, a questi risultati si era arrivati grazie ai progressi della scienza e della medicina, e non a quelli in campo sociale; contemporaneamente, però, cresceva un dato negativo in Sardegna, la quale diventava il “cuore” dell’endemia malarica.
Come era successo nella prima Guerra Mondiale, anche durante il Secondo Conflitto ci fu un arresto e una devoluzione dei risultati raggiunti nella lotta antimalarica; la malattia si riaffacciava, soprattutto fra le truppe. Per far fronte questa situazione la Direzione Generale della Sanità aveva cercato di concentrare gli sforzi nella profilassi, collaborando anche con i comandi militari. Nel 1942 i Comitati Provinciali esaurirono i loro sforzi, anche a causa dei violenti bombardamenti che si scatenarono nell’isola; fino al Dicembre 1944 la Sardegna rimase isolata e costretta a contare esclusivamente sulle proprie forze.

4. Gli sforzi del Governo Nazionale in campo sanitario

Solo nel Maggio del 1944 riprese la riorganizzazione antimalarica, nel contempo le forze alleate effettuavano sperimentazioni sull’effetto dell’irrorazione murale del DDT, dirette dalla Commissione Controllo. Nel 1945, in una Conferenza dell’Istituto Superiore della Sanità, il Direttore del laboratorio di Malariologia, il Prof. Missiroli annunciava l’arrivo di una nuova “arma” per la lotta alla Malaria, il Dicloro-Difenil-Tricloroetano (DDT), e già nel 1946 egli lanciava il “Piano quinquennale per il risanamento dell’Italia della Malaria”, con il quale si voleva risolvere la questione attraverso l’impiego esclusivo di nuovi insetticidi a effetto residuo. Il Piano elaborato da Missiroli prevedeva una suddivisione dell’Itali in quattro zone, in base al tipo ed alla diffusione del vettore malarico: a) la Pianura Padana con una prevalenza dell’”Anopheles Atroparvus”; b) il litorale veneto-emiliano con l’ “Anopheles Sacharovi”; c) l’area centro-meridionale aveva l’ “Anopheles Labranchiae” diffuso a nord e sud di Roma; d) l’Italia meridionale ed insulare, compresa la Sardegna quindi, si registrava la consolidata presenza dell’ “Anopheles Labranchiae”.
Il programma venne accolto con favore dall’Alto Commissariato per l’Igiene e la Sanità (ACIS), il nuovo organo di sanità pubblica, nel 1945; così prese avvio interessando, inizialmente, la zona delle pianure pontine e conseguì buoni risultati. Una cospicua fetta di finanziamenti arrivarono dall’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), la quale stanziò oltre il miliardo di Dollari.
Intanto in Sardegna prendeva avvio il “Sardinia Project”, attraverso il quale si voleva distruggere l’Anopheles Labranchiae, secondo la strategia proposta da Fred Soper, responsabile della “Rockfeller Foundation”, che con questo sistema era riuscita ad eradicare l’Anopheles Gambiae in Brasile. Con le stesse finalità venne istituito l’Ente Regionale per la Lotta Antimalarica in Sardegna (ERLAAS), il quale si riunì per la prima volta il 14 Maggio del 1946 a Cagliari, alla presenza di esperti malariologi, igienisti, medici, autorità politiche e sanitarie, presieduta dall’Alto Commissario Generale Pietro Pinna Parpaglia. Sostanzialmente deciso dall’ “alto”, senza il coinvolgimento della comunità medico-scientifica e delle amministrazioni sanitarie locali, questo progetto fu un esperimento tecnico-scientifico, ma al contempo una strategia economica, politica e militare portata avanti dagli Stati Uniti per il controllo di una parte importante del Mediterraneo (non a caso tale progetto incontrò la netta opposizione del Partito Comunista Italiano, il quale veniva additato come uno strumento di asservimento dell’Europa occidentale agli USA).
Il “Sardinia Project” andò definendosi, in parte, in corso d’opera, a causa di uno studio entomologico ed epidemiologico troppo approssimativo; prima di tutto, in Sardegna erano presenti più specie di Anofeli, oltre quella Labranchiae, perciò il programma doveva prevedere la lotta a tutte le specie presenti nell’isola. Tutto questo comportava alti costi finanziari e il superamento di numerosi ostacoli durante il suo percorso, come la mancanza di lavoro comunitario da parte degli “indigeni” reclutati per l’impresa, l’analfabetismo, la miseria ed i pregiudizi. La forza di volontà dimostrata dai tecnici dell’ERLAAS riuscì a superare le iniziali diffidenze della popolazione locale e delle sue autorità principali; a favorire questo clima fu il fatto che questo ente divenne, in quel periodo, il maggior datore di lavoro dell’isola; così tra il 1947-48 il clima di avversione e di diffidenza aveva lasciato spazio alla curiosità ed all’accettazione. Nell’estate del 1948 erano già stati controllati 1.200.000 potenziali focolai, rimanendo costantemente monitorati, sebbene per raggiungere tale risultato non bastò il solo uso del DDT, ma venne integrato con altre operazioni quali: l’uso di lanciafiamme per l’eliminazione dei roveti, l’utilizzo di aerei per raggiungere posti di difficile accesso ed infine la dinamite per cercare di favorire il drenaggio di corsi d’acqua altrimenti ingovernabili. Inoltre venne attivato un servizio di quarantena per le navi e gli aerei in arrivo in Sardegna, sottoposti a numerosi controlli alla ricerca di qualche specie di Anofele. Nonostante questo vasto impiego di fondi americani e regionali, nonostante l’utilizzo di svariate tecniche e piani di lotta antimalarica, il “Sardinia Project” non riuscì a raggiungere il suo obiettivo: nel 1951 l’isola era libera dalla Malaria, ma non dall’Anopheles Labranchiae. Dal punto di vista ecologico, per lo più, l’uso massiccio di DDT causò enormi danni ambientali, avvelenando corsi d’acqua e bacini acquiferi, che portarono a dure conseguenze economico-sociali nel settore della pesca di acqua dolce. Le terre che l’ERLAAS riconsegnava ai sardi erano finalmente, ma persisteva il degrado ambientale, erano ancora in piedi le tradizionali condizioni dell’immobilismo economico-sociale, i problemi dell’assetto fondiario e dello sviluppo agricolo.
La dichiarazione di completa distruzione della Malaria in Italia arrivò solo nel 1970 da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), gli ultimi casi di Malaria si verificarono in Sardegna nel 1952, mentre in Sicilia nel 1957. La razionalità tecnologica e l’efficienza, l’attivismo degli Alleati (interessati a tenere sotto controllo l’infezione, anche perché gli americani intendevano proteggere i loro soldati insediati in varie basi militari americane in Italia, soprattutto in Sardegna), i recenti progressi scientifici e sanitari della malariologia, la scoperta dell’azione insetticida del DDT, furono tutti fattori che contribuirono alla soluzione del problema della Malaria.

5. La ricerca scientifica nel campo della Malariologia

Il nome Malaria deriva da quella concezione, lungamente considerata tale, che quelle febbri miasmatiche fossero provocate dall’aria malsana presente nelle paludi e nelle acque stagnanti, da qui il nome di “mal d’aria”; solo nella seconda metà dell’Ottocento questa convinzione lasciò il posto ad un altra, quella cioè che fossero altri “agenti” legati al suolo delle aree malariche, definiti “fermenti malarici”.
L’Igienista Corrado Tommasi Crudeli, Professore all’Università di Roma, sosteneva che “l’agente morbifico” era diffuso indipendentemente dalle condizioni idrauliche e topografiche delle regioni malariche. A fine dell’Ottocento l’entusiasmo per le scoperte del grande biologo e chimico francese Louis Pasteur sulla Teoria dei Germi, fondamento della batteriologia o microbiologia, orientavano anche gli studiosi di malattie trasmissibili ed epidemiche nella loro ricerca. Nel 1879 il Prof. Crudeli e il Prof. Edwin Klebs individuavano un batterio, precisamente un Bacillo, il Baccillus Malariae che inoculato in animali di laboratorio procurava stati febbrili; nei campioni di sangue degli animali presi in esame si rinveniva infatti il batterio palustre, per quanto in forma diversa da quella presente nei terreni paludosi. L’anno successivo, nel 1880, un medico francese, Alphonse Laveran, osservò nel sangue di una paziente affetta dalla Malaria, un parassita denominato Oscillaria Malariae; intanto la discussione e le sperimentazioni proseguirono. All’interno della disputa scientifica si inserì Camillo Golgi, il quale dimostrò con una sperimentazione clinica e di laboratorio che non esistevano nessi precisi tra il Bacillo e la Malaria; le febbri degli esperimenti del Prof. Crudeli derivavano infatti dalla reazione all’inoculazione di materiale estraneo all’organismo; Golgi spostava così il presupposto metodologico, invertendo il procedimento del collega: la ricerca muoveva dall’uomo per essere poi confermata nell’ambiente, cioè si ricercavano nel paziente malarico gli organismi parassitari, che venivano in una seconda fase ricercati nell’ambiente. Tra il 1881 e il 1882, le ricerche condotte sul sangue di alcuni pazienti affetti dalla malattia, grazie a nuove tecniche di osservazioni, misero in discussione le precedenti scoperte e si riaffermava la Teoria di Laveran. Ettore Macchiafava e Angelo Celli, confermarono le osservazioni del medico francese, precisando il ciclo di vita degli organismi protozoici da loro chiamati Plasmodi. In realtà i due avevano dapprincipio accolto con diffidenza le osservazioni del Laveran, ma in seguito, incontrato personalmente nel 1882, ne riprenderanno il metodo nel 1884, nello studio degli strisci ematici non colorati e la disamina del parassita, fino ad individuarne lo sviluppo.
Negli stessi anni Golgi dopo una serie di osservazioni su circa 40 pazienti malarici, concentrava il proprio studio su casi di malaria “quartana”, fu in grado di individuare la relazione tra il parossismo febbrile e la segmentazione del protozoo (Legge di Golgi), e il segreto dell’intermittenza delle febbri, arrivando non solo a dimostrare che il plasmodio di Laveranera effettivamente il parassita all’origine della malattia malarica, ma anche precisando che diversi parassiti, il Plasmodium Vivax e il Plasmodium Malariae, erano i fattori eziologici della malaria “terzana” e “quartana”. Golgi ebbe anche il merito di eliminare dalla scena il Bacillus Malariae; dopo una serie di esperimenti fu in grado di escludere completamente la correlazione tra il bacillo e le manifestazioni cliniche della Malaria: il così detto Bacillus di Klebs, Crudeli e Schiavuzzi, nulla ha a che fare con l’infezione malarica (“il Bacillo medesimo non potrebbe nemmeno essere ascritto tra i microrganismi patogeni…”). Dopo la scoperta del parassita da parte di Laveran, gli anni tra il 1885 e il 1892, la ricerca prosegue e sempre più spesso si fa ricorso alla sperimentazione umana; questa fase, dominata dai malariologi italiani, è fondamentale per le scoperte sulla biologia del parassita e sulla patogenesi della Malaria. Ulteriore contributo degli scienziati italiani si ebbe nella fase che avrebbe chiarito l’origine del parassita e il modo in cui si introduceva nel sangue.
L’ipotesi che la Malaria umana venisse trasmessa dalle zanzare cominciava ad affermarsi tra i ricercatori; nel frattempo altre scoperte aggiungevano elementi al puzzle. Nel 1893, era stata annunciata la scoperta sulla “febbre del Texas” che colpiva i bovini, ad opera di Theobald Smith e F. L. Kilborne. I due scienziati avevano dimostrato che la zoonosi (malattia trasmessa da un animale all’uomo), molto affine alla Malaria umana, era causata da un parassita ematofago, la Zecca. Angelo Celli in Italia, nell’agro romano, Robert Koch in Africa Orientale confermavano nel 1898 con le proprie indagini i risultati americani, in qualche modo aprendo la strada alla “Teoria della Zanzara” come eziologia della Malaria.
Un altro studioso italiano, Amico Bignami, accoglie la scoperta ritenendola di estrema importanza per la scienza. Bignami aveva intuito nelle zanzare il veicolo di trasmissione della Malaria, contrastando le teorie del parassitologo Sir Patrick Manson, considerato il fondatore della Medicina Tropicale, secondo cui il parassita passava nell’uomo attraverso l’acqua e l’aria; il clinico italiano ne aveva tratto la dimostrazione, proprio dalle caratteristiche delle febbri malariche, che non mietevano vittime indistintamente, come le altre malattie epidemiche, effetto che si sarebbe verificato qualora la trasmissione fosse avvenuta attraverso ingestione di acqua palustre o esalazione di aria infetta. Nel 1894, Bignami tentò di dimostrare attraverso analisi laboratoristi la teoria dell’inoculazione, non giungendo però ai risultati sperati dato che le specie di zanzare si dimostrarono poi non essere veicolo di Malaria. Successivamente Giovanni Battista Grassi, intuì l’esistenza di particolari specie come vettori trasmettitori dell’infezione; la sua intuizione fu senza dubbio condizionata da R. Koch, che proprio nel 1898, di ritorno dall’Africa, discuteva a Roma con Grassi e la Scuola di malariologia romana, la Teoria della Zanzara. Precedentemente lo stesso Grassi aveva condotto tra il 1887 e il 1891 vane sperimentazioni sulle Culex Pipiens, una specie di zanzara diffusissima. L’esito negativo di questa ricerca aveva portato in un primo momento lo zoologo italiano a opporsi alla teoria dell’inoculazione. Proprio in una conversazione con il batteriologo tedesco Koch, Grassi comprese che nelle zone malariche dovevano esser presenti zanzare specifiche, assenti in zone non malariche. Grassi, successivamente era riuscito a limitare il numero delle specie sospette a tre: Anopheles Claviger, Culex Penicillaris e Culex Malariae, aggiungendo inoltre che quella che riteneva responsabile fosse la prima. Con la collaborazione dei clinici Amico Bignami e Giuseppe Bastianelli iniziò nel Settembre 1898 la fase sperimentale della ricerca, sottoponendo volontari a punture di zanzare delle tre specie. Il 6 Novembre del 1898, Grassi fu in grado di dichiarare all’Accademia dei Lincei i primi risultati della sperimentazione: poteva dire che le Culex non erano i vettori della malattia. Il 4 Dicembre del 1898 Grassi annunciava che un uomo sano aveva contratto Malaria a seguito della puntura di un Anopheles Claviger. In poco tempo il gruppo di ricercatori potè descrivere l’intero ciclo di sviluppo del Plasmodium nel corpo della zanzara. Nel 1901 Grassi scriveva: “La scoperta che la Malaria viene propagata con la puntura di certe zanzare è diventata definitiva, essendosi quest’anno confermato praticamente ciò che il microscopio aveva rivelato con sicurezza. Ogni dubbio viene dunque eliminato e non resta che approfittare della nuova dottrina a beneficio del nostro paese”.
In poco meno di un anno (Luglio 1898-Giugno 1899), grazie al chiaro metodo che combinava un’indagine biogeografica e un’analisi sperimentale condotta sull’insetto e sull’uomo, lo zoologo italiano scopriva il meccanismo di trasmissione della Malaria umana. Risolto il problema scientifico si poneva il quesito di come risolvere la trasmissione della malattia, spezzare la catena uomo malato-zanzara non era affatto semplice. Nei primi decenni del Novecento, il dibattito sui diversi sistemi per interrompere il ciclo di trasmissione, coinvolse numerosi scienziati, che però, incontrarono enormi difficoltà, come dimostra il caso della Sardegna. Alcuni ritenevano indispensabile la cosiddetta “bonifica umana”, cioè la cura chininica dei malati; altri puntavano sul controllo dei vettori per mezzo di pesticidi. In Sardegna fu sperimentato il metodo che associava la distruzione delle larve alla lotta alle zanzare adulte. Secondo Gilberto Corbellini bisognava utilizzare due metodi: da una parte la necessità di trattare innanzitutto i malati con l’uso terapeutico e profilattico del Chinino e contemporaneamente utilizzare dei sistemi di protezione meccanica, come le reti metalliche applicate agli infissi. In alternativa occorreva combattere il parassita e il suo vettore e contemporaneamente usare il Chinino nei malti in modo che le zanzare non trovassero parassiti nel sangue. Le soluzioni farmacologiche, la lotta antianofelica, le bonifiche riusciranno a diminuire l’incidenza e la gravità della malattia; solo una potente nuova arma come il DDT riuscirà a liberare la popolazione dall’incubo della Malaria.

Caso di perniciosa malarica, ASLAORE, sede Sassari, fascicolo “famiglie coloniche”

Bibliografia:
E. Tognotti, Per una storia della malaria in Italia. Il caso della Sardegna, Franco Angeli editori, 2° edizione riveduta e ampliata, Milano 2008,
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